Archivi del mese: febbraio 2010

Maternità: il corredo del nuovo nato

Ammetto di essere stata giovane e piena di idee fumose, quando aspettavo la mia prima figlia. In qualche modo credo di essere migliorata con ottusa lentezza. Mi sono lasciata prendere dalla trappola dei famosi “trio” (per i profani, una carrozzina, che diventa passeggino, che diventa un seggiolino per auto), costosi quanto un’auto usata. Ammetto di aver comprato deliziose e scomodissime tutine, ricetrasmittenti della Nasa per sentire se la bambina che dormiva nella stanza accanto respirava ancora… Parliamo quindi della confessione di una polla convertita, una donna che sa – per averli vissuti – di quali deliri sia capace una neo-mamma.
Ammetto inoltre, per esserne stata testimone, che certi eccessi pauperistico-naturalistici mi suonano come il massimo della snobberia.
Il punto sarebbe chiedersi con calma e raziocinio: cosa mi serve? Cosa è utile per me e il bambino? Cosa semplicemente può farci stare bene, senza sovraccaricarci di una montagna di prodotti a cui dobbiamo adeguarci, senza che siano loro a conformarsi a noi?
In primo luogo un bambino che nasce ha bisogno di cibo (si spera il latte della sua mamma), di vestiti, di un posto dove dormire.
Ecco le poche cose che consiglierei in partenza, poi chi vivrà vedrà:
1. Reggiseni grandi comodi per la mamma (non necessariamente da allattamento, che costano cari e non tutte li trovano comodi);
2. Un angolo calmo nella casa (con una poltrona, o una sedia a dondolo, luci soffuse, silenzio, cuscini comodi): questa è una cosa che va creata, piuttosto che comprata;
3. Eventualmente un cuscino per l’allattamento (sarebbe bello poterne provare uno, per vedere se ci è di aiuto);
4. Mille mila bavaglini, semplici, di cotone soffice e assorbente (e bio, per chi lo peferisce);
5. Pochissime tutine taglia 0, anche qui in cotone, leggero o pesante a seconda della stagione, oppure lino. Le più morbide che si trovino. Solo dopo la nascita è meglio aggiungerne qualcuna, tenendo conto del peso effettivo del bambino e anche dei tassi di crescita frenetica. Evitate fronzoli, cerniere, applicazioni, e state invece attente alla comodità di aprire e richiudere la tutina molte volte per cambi e controllo situazione;
6. Delle canottiere in cotone (o con l’interno in cotone e l’esterno in lana, a seconda delle stagioni). La lana sulla pelle dei piccolissimi è spesso irritante;
7. Una buona crema per gli arrossamenti della pelle del bambino, un olio non tossico per la pelle del seno;
8.Una cesta o una carrozzina dove far dormire il piccolo, foderata di cotone;
9. Una fascia o mei tai, o una carrozzina per le passeggiate (personalmente non ho mai usato gli infiniti accessori che tentano di vendere con i passeggini, quali ombrelli, cappottine, ecc…, ma vedete voi);
10. Un seggiolino per l’auto (meglio se prendete quelle ceste che possono essere fissate con le cinture di sicurezza, evitando di duplicare la spesa);
11. Relative lenzuola e coperte per la carrozzina (o cesta), considerate eventualità di rigurgiti, fuoriuscite dal pannolino, ecc… e prevedete la possibilità di cambio anche senza impazzire, considerando il ritmo con cui fate il bucato.
12. Qualche cuffietta per le passeggiate, e in inverno un tutone termico, anche se è una cosa infernale da infilare e togliere, meglio quelli a sacco.
12. Un buon prodotto, molto delicato e possibilmente naturale, per il bagno.
13. Utili anche: una spazzola a setole morbidissime per i capelli, forbicine arrotondate per le unghie, un termometro per il bagnetto, una spugna naturale.
14. Pannolini (sarebbe meglio lavabili o ecologici…).
15. Una giostrina semplice e non troppo chiassosa, possibilmente fatta in casa, da appendere sul letto.
Inutili: trasmittenti (tipo Angel Care), fasciatoio con vaschetta per il bagno (o anche la vaschetta da sola): il bagno ai piccolissimi si può fare in una piccola bacinella o, con un po’ di attenzione, nel lavandino. Il fasciatoio come mobile non è essenziale, utile invece avere un angolo con tutto a disposizione e un appoggio sicuro. Inutili anche le varie pompette nasali. Nei primi mesi ho sempre usato tutine con i piedini, quindi non ho mai usato calze o – peggio – scarpe. Le calze diventano invece utilissime qualche mese dopo, quando il bimbo inizia a gattonare.
Per quanto riguarda il ciuccio, ognuna ha la sua scuola e ogni bimbo le sue preferenze, quindi non mi intrometto.

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Elogio della disciplina

Bernhard Bueb, nato nel 1939, è stato per circa un trentennio il preside di un collegio privato in Germania, la Scuola Salem; un collegio élitario, in prossimità del Lago di Costanza, nel quale – come ovunque in Occidente – dagli anni 1960 in poi è stato tentato l’esperimento di rendere l’educazione sempre più democratica, confidando nel fatto che i ragazzi, se lasciati liberi di scegliere e di prendersi le proprie responsabilità, avrebbero trovato “naturalmente” la via per l’auto-disciplina, per lo studio, per lo sviluppo di quelle qualità morali e sociali che ne fanno un adulto libero e responsabile.

Niente di più sbagliato, ci dice ora l’anziano professore – che è anche un teologo cattolico – nel volume Elogio della disciplina, nel quale ci spiega come i ragazzi abbiano diritto alla disciplina. La disciplina, quando è unita a vero amore e a una dedizione appassionata all’educazione dei giovani, libera i nostri figli dalla fatica di dover scegliere continuamente se lavarsi, se mettere in ordine la stanza, se studiare, se rispettare le regole. Semplici punizioni automatiche, specie se date per le trasgressioni di poca importanza, danno ai ragazzi un habitus, una consuetudine col proprio dovere, non li caricano di responsabilità prima che siano in grado di assumerne e, meraviglia, tendono nel tempo a trasformarsi in auto-disciplina. Ovvero in capacità di sottoporsi a uno sforzo per raggiungere degli obiettivi, in facoltà di fare scelte responsabili nei confronti della comunità e non individualistiche. Bueb fa l’esempio della disciplina, dell’impegno e anche della cieca obbedienza agli ordini dell’allenatore, richiesti dal far parte di una squadra sportiva. Eppure i ragazzi accettano tutte queste cose con entusiasmo, consapevoli della loro necessità in vista di un obiettivo. La disciplina amorevole non danneggia i ragazzi, lieduca, li fa crescere, nel senso più vero del termine.

Gli esempi concreti, quasi quotidiani, portati dal professor Bueb, sono numerosi e in tutti si intravvede una ricerca di equilibrio tra il versante libertario e quello autoritario dell’educazione, con la consapevolezza che «per chiarire quale sia la strada da percorrere prenderò a prestito da Thomas Mann l’esempio del marinaio che per raddrizzare la sua barca si sposta a destra quando questa si inclina a sinistra». Non c’è dubbio che la barca dell’educazione sia da tempo inclinata sul versante del massimo disimpegno, tra professori che lamentano sempre più la svogliatezza dei propri studenti e gli atti di quotidiano bullismo, di cattiva educazione, di uso sempre più diffuso di stupefacenti, e così via.

Bernhard Bueb ci ricorda, invece, che educare significa appunto esercitare un’autorità e una disciplina che, quando non sono lasciate in mano a individui sadici oppure ostili ai giovani che vengono loro affidati, sono il miglior servizio che possiamo rendere ai nostri ragazzi. Non solo. Sono l’occasione per gli adolescenti di “mettere in discussione” le regole, per definire la propria personalità anche nella capacità di confrontarsi con esse.

L’Autore ci spiega in modo semplice e appassionato come, se vogliamo dare ai giovani gli strumenti per affrontare il proprio futuro, se vogliamo farne degli individui morali, se ci aspettiamo che vivano la propria libertà come una tensione permanente e non come un vuoto pneumatico privo di valori e ideali, noi dobbiamo loro la disciplina. Ci mostra come un frainteso sentimento di amore, che sfocia in un atteggiamento rinunciatario o lassista, stia alla base di tanto sbandamento della nostra gioventù. Ci indica come un eccesso di psicologismo applicato all’educazione (soprattutto all’educazione dei ragazzi sani – ovviamente diverso è il caso della vera malattia mentale) ci abbia portati a non riuscire a dare ai nostri figli le sane, liberatorie, educative, necessarie regole. O di averle enunciate in teoria senza avere avuto la forza (ma anche il tempo, la dedizione, la costanza) di metterle in pratica. Siamo minati dal dubbio, dall’incertezza pedagogica, e i bambini ne risentono.

Il libro ci svela come l’educazione non sia mai, né possa essere, un fatto democratico: democraticamente nessun giovane si farebbe educare, poiché l’educazione è prima di tutto una scelta che parte dal mondo degli adulti e poi si “cala” sul bambino, il quale ne potrà cogliere i frutti solo via via che essa si viene completando. Pochissimi bambini, forse nessuno, potrebbero democraticamente acconsentire a non abbuffarsi di dolciumi, a non passare l’intera notte davanti a un televisore, a non strillare per soddisfare ogni possibile desiderio. Così come gli adolescenti difficilmente sentirebbero lo stimolo a mettere in ordine la propria stanza o ad abbandonare un videogioco in favore dello studio. Bueb parla anche di alcune note scuole libertarie, concludendo che per sua esperienza il loro eventuale successo dipende soprattutto dal carisma del fondatore, e che raramente sopravvivono al passaggio di gestione in mano di guide meno carismatiche. In un certo senso l’educazione libertaria funzionerebbe perché il ragazzo sarebbe portato a sottomettersi volontariamente all’adulto carismatico, seguendone spontaneamente indicazioni e regole. E’ interessante notare come Bueb distingua fermamente profitto e disciplina: ritiene scorretto penalizzare nei voti di rendimento scolastico i ragazzi con problemi disciplinari (come spesso viene fatto nelle nostre scuole), così come non ammette punizioni corporali o umilianti: piuttosto prevede dei semplici automatismi (camera in disordine – abolizione della libera uscita, danneggiamento del materiale scolastico – ore di servizio per la scuola, ecc…).

La discussione continua su tutto, falsamente democratica, serve solo per mantenere aperta una trattativa infinita, procrastinando il proprio dovere e, in ultima istanza, il proprio bene reale. Bueb lo spiega chiaramente quando ricorda la lunga stagione in cui, per dissuadere i giovani dall’uso delle droghe, nella sua scuola si facevano continui incontri di prevenzione con insegnanti, psicologi, assistenti sociali. Senza alcun risultato. Da quando è stato introdotto un test delle urine quotidiano a sorteggio, e chiarito il punto che gli studenti che si fossero rivelati positivi sarebbero stati espulsi, il problema si è praticamente ridotto a zero. Con grande giovamento di tutti: dei ragazzi, della didattica e anche della fiducia che gli insegnanti hanno nei confronti dei ragazzi stessi. Ora, a fronte di uno studente improvvisamente meno attento o svogliato, non nasce il dubbio che egli faccia uso di droghe. La diffidenza è inutile, quindi si passa più rapidamente alla ricerca del vero problema.

In ultima istanza la disciplina, in un contesto educativo di profondo interesse per i giovani, si rivela – incredibilmente – non come una cappa, che tende a uniformare gli individui negli stessi comportamenti, ma come uno strumento per sviluppare a fondo (con fatica e impegno) la vera personalità di ogni ragazzo. Perché l’educatore, sulle questioni importanti, dev’essere anche in grado di essere presente, di perdere tempo, di discutere a lungo. Non sull’igiene personale, ma sui percorsi educativi; non sull’ordine dei cassetti, ma sulle scelte morali.

Personalmente, avendo tentato negli ultimi mesi alcuni cambiamenti nel mio stile educativo (limitazione della televisione e dei videogiochi, per esempio, oppure riduzione del numero di giochi e attenzione alla loro qualità…), devo ammettere che anche le scelte che si fanno per preservare una certa libertà mentale dei bambini a volte vanno imposte nonostante le proteste e i pareri contrari degli stessi. Difficilmente l’educazione parte da qualcosa che non sia una proposta dell’adulto. Il problema vero è che l’educazione è prima di tutto un lavoro dell’adulto su sé stesso, quindi faticosa e a volte incerta. Ma di questo vorrei tornare a parlare in un altro momento.

Bueb ci ricorda come l’autorità nell’educazione sia in rapporto profondo con la vera libertà, con l’acquisizione di quelle doti, intellettuali, morali, sociali e culturali, che al momento giusto ci permetteranno di fare le scelte più libere, e di sapere liberamente perseguirle con disciplina. Viene automatico mettere in relazione queste considerazioni con la vita quotidiana, che dal mondo dei giovani e dalla scuola si trasferisce sulle pagine di cronaca di tutti i giornali. Avere a cuore il futuro dell’educazione significa riflettere su queste tematiche, senza ideologie, ma con vera sollecitudine verso il bene reale dei nostri figli. Come titola il sesto capitolo di questo libro breve, “il disordine è causa di dolore precoce”. Faremmo meglio a saperlo.

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Sono perplessa

Molto perplessa. Ecco l’esperienza delle ultime due volte in cui Giorgio si è incontrato con dei coetanei per giocare.
Primo caso, un compagno dell’asilo incontra per caso mio figlio, erano amici e giocavano spesso insieme, la mamma invita mio figlio a giocare da loro per qualche ora, io devo fare degli accompagnamenti dei suoi fratelli, ma ringrazio e dico che andrò a prenderlo dopo circa un’ora e mezza. Arrivo e li trovo nella camera del bimbo, davanti a un computer acceso (esatto, il computer staziona esattamente lì, vicino al letto), con un videogioco piuttosto violento: entrambi ipnotizzati. La mamma mi dice compiaciuta che mio figlio è stato bravissimo: non si sono mossi di lì neppure un momento!
Sono innervosita, ma la signora fa la stiratrice in casa, immagino che avesse bisogno di poter finire il suo lavoro e magari è persino fiera che suo figlio sia bravo a usare il computer. Lascio perdere, sorrido e saluto. Mio figlio sarà intrattabile per tutta la sera, è arrabbiato perché il suo amico non gli ha neppure lasciato toccare il gioco: ha potuto solo guardare l’altro che giocava. Mi chiedo: ma perché invitarlo, allora?
Qualche settimana dopo mi telefona la mamma di un compagno di classe dell’anno scorso, ora si è trasferito in un’altra zona, ma vorrebbe poter rivedere Giorgio. Li invito un sabato pomeriggio a casa mia. La signora (certamente di buon livello culturale) toglie il cappotto al figlio, estrae dalla borsa un videogioco portatile, lo consegna al bambino e gli dice “divertiti”. Ovviamente i bimbi finiscono per due ore in cameretta, zitti e muti, fino a quando non li interrompo per la merenda.
Aggiungo Caterina, invitata da un suo caro amico, bambino vivace e molto spiritoso. Forse troppo vivace, così finisce che si attacca (insieme a mia figlia) a una Nintendo Wii, e non passa più il tempo a fare scivolate nel corridoio.
In altri casi, ai bambini viene proposto di vedere una videocassetta (in maniera automatica, non dopo un lungo gioco animato, ad esempio).
Ma mi domando: è possibile che ormai un numero enorme di mamme ritenga che i videogiochi siano la sola forma di interazione possibile tra bambini anche piccoli? E’ possibile che non ci siano regole e limitazioni? Se questi giochi possono talora trovare la giustificazione per i bambini soli (così i genitori non devono giocare con loro), perché nei casi precedenti (si tratta di bambini che hanno tutti almeno un fratello o una sorella) li usano massicciamente anche bambini che soli non sono? E perché li usano quando hanno un amico o un’amica lì presente in pelle e ossa con cui giocare?
In teoria tutti sanno che dovrebbero essere limitati gli accessi agli schermi (ogni famiglia può avere delle regole diverse, ma su una certa regolamentazione in teoria tutti concordano), perché di fatto i bambini sono lasciati liberi di accedere a questi mezzi quando vogliono, e talora persino incoraggiati?
Perché vanno sempre annientati davanti a un videogioco o a uno schermo?
Com’è possibile poi che nessuna mamma mi chieda se per me va bene?
E se fossi contraria? Devo subire gli stili di vita altrui sia quando i miei figli sono invitati, sia quando invitano? C’è modo di mettere un limite, senza dover essere maleducata, ma neppure succube?
Ci sto pensando, ma non ho ancora trovato risposte a queste domande…

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Maternità: allattamento

Continuo la mia personale ricognizione nei percorsi che mi hanno portato ad essere la mamma di oggi, nel bene e nel male. Ho iniziato qui parlando di gravidanza, continuo oggi con un altro argomento potenzialmente sconfinato: l’allattamento.
Inizio facendo un passo indietro. Per parlare di allattamento dobbiamo tornare un attimo in sala parto: è qui che, nel migliore dei casi, il bambino viene lasciato subito a contatto con il corpo della madre. E’ qui che per la prima volta gli si propone il seno, anche se può essere troppo assonnato o disinteressato sulle prime.
Gli ospedali dove ho partorito sono entrambi organizzati per lasciare il bambino con la madre per circa un’ora dopo il parto. Hanno una sala apposita, non proprio accogliente, ma almeno calda e tranquilla. In quest’ora il bambino può essere attaccato al seno, oppure semplicemente tenuto accanto alla madre. Solo dopo viene portato via per i controlli di routine.
Un primo consiglio da parte mia è di cercare reparti di maternità che adottino questo sistema.
In secondo luogo tenere, già dall’ospedale, il bambino in camera con sé permette alla neo-mamma di rispettarne i ritmi. Lasciandolo dormire quando dorme, ma lasciandolo davvero: ho visto mamme che andavano a spostare il bimbo mille volte in due minuti (non respira, soffoca, ha il riflusso, il manuale dice che deve stare in questa posizione, il lenzuolo non è perfettamente in ordine, la tutina ha una macchiolina, lo voglio guardare, la zia deve prenderlo in braccio…), provando ad attaccarlo quando piange, standogli vicino e magari tenendolo un po’ in braccio quando è sveglio. Sono momenti importanti, in cui ci si inizia a conoscere, noi iniziamo a riconoscere (ma ci vorrà ancora un po’ di tempo) il tipo di pianto, lui inizia la stimolazione della produzione di colostro prima e di latte poi.
Il latte materno è la principale fonte alimentare per i piccoli mammiferi. Questo è importante e bisogna saperlo bene: crea benessere e salute su vari piani per la madre e per il bambino.
Tuttavia, e ritorno alla mia esperienza personale, trovo che la cosa più importante sia mantenere un rapporto intimo con il bambino e una certa serenità nella madre. Ora, questa serenità, quando va tutto bene, la si trova naturalmente nell’allattamento al seno. La mia prima figlia è stata allattata da me per circa sei mesi: non moltissimo, rispetto a mamme che allattano fino a 1/2/3 anni, ma questo è stato il massimo che sono riuscita a fare. Poi il latte se n’è andato, nel giro di relativamente pochi giorni, la piccola iniziava a provare gusto per altri cibi e così la cosa avvenne in modo piuttosto indolore, senza traumi di alcun tipo.
Quando nacque la seconda bambina ero ben decisa ad allattarla al seno, lei era piuttosto famelica e si attaccava molto, così tutto sembrava ben avviato. Purtroppo però tra il secondo e il terzo mese ho avuto una febbre molto alta, e il giorno dopo non avevo più latte. La bambina piangeva disperata, così dopo un paio di giorni ho provveduto a fare un’aggiunta di latte artificiale.
Ovunque si legge e si dice che l’allattamento naturale è il più economico e il più pratico (vero, a patto di non considerare che alcune usano il tiralatte per necessità di vario tipo), certamente l’allattamento misto è il più infernale in assoluto: bisogna comunque attendere che un bambino spesso famelico e innervosito tenti di succhiare quel che trova, poi bisogna preparare, sterilizzare, pesare il bimbo dopo la tetta, pesare il latte da aggiungere, affrontare un bambino che ora magari è stanco di avere succhiato invano, quindi tende ad addormentarsi dopo due sorsi di biberon… e così ad ogni pasto.
Francamente, non me la sono sentita: dopo alcuni giorni in cui la bambina continuava a succhiare da me solo poche gocce (lei nervosa, io pure, tutti che mi guardavano come un meccanismo guasto) ho chiuso il capitolo e sono passata in toto al latte artificiale.
Giunta al terzo figlio comunque ci riprovo. Questa volta dopo circa un mese e mezzo mi prende la stessa febbre, ancora il latte sparisce e io passo al biberon.
Quando nasce il quarto figlio avviso ginecologo, pediatra e ostetrica delle precedenti esperienze (spero che mi possano aiutare a capire cosa è successo, e come evitarlo): mi dicono che si è trattato di un caso, minimizzano, io riprovo ad allattare e questa volta la febbre arriva dopo poche settimane. Rassegnata, mi preparo nuovamente al biberon.
Infine veniamo all’ultima nascita, che però va contestualizzata: stiamo parlando della quinta figlia, nata dopo 8 mesi in cui ero bloccata in un letto, non riuscivo quasi più a camminare per il mal di schiena e avrei dovuto prendere dei farmaci. Nel frattempo avevo altri 4 figli di 2, 4, 6, 13 anni a cui badare. Volevo rimettermi in piedi, potermi muovere, poter prendere in braccio gli altri bimbi, poterli portare a scuola o accompagnare ai giardini, come non facevo da otto mesi. Avevo bisogno di forze per tutto e volevo prendere i farmaci per la schiena. Inoltre temevo la solita febbre che di lì a poco poteva arrivare. Ho deciso, non senza mille lacerazioni interiori, di non allattare fin da subito. Mi sono fatta dare una pastiglia in ospedale. Il mio pediatra e il ginecologo erano stati informati ed erano d’accordo, ma le ostetriche non tanto: mi hanno fatto sentire una madre degenere. Una specie di coniglia che mette al mondo troppi figli e non riesce a prendersene cura.
E qui vorrei dare il consiglio che più mi preme in fatto di allattamento: cercate di allattare con convinzione, cercate di farlo per un tempo ragionevolmente lungo (senza ricette predefinite, per alcune può significare sei mesi, per altre un anno e oltre), dove “ragionevolmente” vuol dire “adatto a voi” (magari dovete tornare al lavoro, magari dovete prendere dei farmaci, magari siete esaurite e o dormite o tirate il bimbo contro un muro…), cercate di non abbandonare l’allattamento per motivi futili (es.:”il seno si rovina”…che poi non è neppure vero), per conformismo, insomma provate tutto quel che potete provare, ma non fatene un dramma e non sentitevi in colpa o “cattive madri” perché non potete allattare; continuate a fare sentire al piccolo la vostra presenza, siate serene e vedrete che non necessariamente vostro figlio diverrà un serial killer se non lo avete allattato per i primi due anni di vita. L’allattamento è certamente un fatto importante, carico di ricadute positive sia fisiche sia emotive, ma non è l’unica componente dell’essere mamme, nonostante quello che vi potrà dire lo stuolo di saccenti che circondano ogni mamma, specie se alla sua prima esperienza.
Io ho scelto un latte già liquido, non in polvere, che mi permetteva di evitare la seccatura di dosare e di poter tenere 2/3 biberon pronti nel frigo e doverli solo scaldare al momento del pasto (cosa particolarmente utile di notte). Certo bisogna lavare e sterilizzare tutto, ma se si ha un certo numero di biberon si può fare l’operazione 1/2 volte al giorno, senza dover per forza impazzire a ogni poppata. Ci sono bambini che hanno molte difficoltà con il latte artificiale, i miei per fortuna non ne hanno avute.
Se tornassi indietro cercherei di approfondire meglio il perché di quelle misteriose febbri (anche se forse si trattava semplicemente di una mia personale reazione alla stanchezza), forse terrei un po’ più duro prima di passare al biberon, ma certamente nelle condizioni date non credo che potrei fare molto diversamente.
Prossimo capitolo: il corredo del neonato (ovvero la follia al potere).

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Maternità: gravidanza e parto



Inizio oggi una serie di post di riflessione sulla mia esperienza come madre.
Spero che possano essere utili a me per fare il punto della rotta in questo periodo di riflessioni e cambiamenti, spero – ne sarei lieta – che possano essere utili almeno un pochino anche ad altri, magari neo-mamme o future mamme.
Inevitabilmente andrò sul personale: non ritengo di avere nessuna verità assoluta da proporre, e certamente le mie convinzioni si sono molto modificare nel tempo, ma mi è capitato di trarre beneficio da esperienze condivise da altre donne, e così vorrei raccontare le mie.
Partiamo dalla prima gravidanza, non programmata ma certamente neppure uno sbaglio, diciamo che l’ho subito vista come una delle molteplici possibilità del reale che si era concretizzata. Avevo 25 anni, e mi sembrava di avere tante cose da fare, ma l’idea di quell’esserino che si sviluppava dentro di me mi ha subito messo allegria. Non sapevo nulla e non volevo neppure sapere molto: nella mia incoscienza mi sarebbe bastato essere diversa in ogni dettaglio dai miei genitori per sentirmi una mamma riuscita.
La gravidanza fu seguita da un’ospedale di Torino (la Clinica ostetrica universitaria): mi assegnarono una ginecologa, mi indicarono delle cadenze di visita (se ricordo bene circa una ogni mese e mezzo), tre ecografie e alcuni prelievi del sangue. “Prenda il ferro e l’acido folico”, e via. Ero giovane e sana e proprio non serviva altro.
Sono ingrassata come una mongolfiera, ero piena di nausee prima e di acidità di stomaco dopo… insomma tutto nella media. Mi dò agli acquisti per il corredino, seguendo una lista dell’ospedale, un po’ di consigli materni, un po’ i negozianti. Scoprirò in seguito che avrei potuto fare meno e meglio, ma tant’è.
All’epoca feci il mio primo e unico corso pre-parto; un’esperienza direi piuttosto inutile, col senno di poi mi è servita solo per due cose: 1. mi dissero che masticando a lungo 2/3 mandorle avrei alleviato l’acidità di stomaco (verissimo!), 2. si faceva un po’ di rilassamento (era molto piacevole, ma se ora dovessi dare un consiglio suggerirei un corso di yoga, o di ginnastica dolce pre-parto, qualunque cosa aiuti il rilassamento, dia elasticità e faccia lavorare sulla respirazione profonda).
Ho partorito nello stesso ospedale in cui ero stata seguita. La dottoressa che conoscevo non era di turno, in compenso ho trovato delle ostetriche (una in particolare, vorrei ricordarne il nome ma mi sfugge) che mi diedero grande conforto. Essendo il primo figlio (anzi, figlia), non essendo io esattamente un mostro di resistenza al dolore, il travaglio andando per le lunghe, a un certo punto ricordo di avere quasi (anzi, tolgo il “quasi”) implorato un qualunque analgesico. Le ostetriche tennero duro, il mio parto fu completamente naturale e – purtroppo – uno shock. Ricordo di averlo sognato per mesi come una scena di un film dell’orrore.
Parliamo di 16 anni fa, nel mio reparto c’era solo una stanza in cui permettevano di tenere i bambini in camera con le mamme. Io richiesi questa camera e così iniziai subito a occuparmi della piccola, senza gli orari della nursery, almeno in parte, perché di notte i bambini venivano portati via per qualche ora, in modo da favorire il riposo delle madri, e non mi sembrava una brutta cosa.
La piccola era bella e pacifica, io stanca ma felice, tutti volevano dirmi cosa dovevo fare: ero certo un po’ confusa, ma in fondo anche testarda, quindi facevo a modo mio, seguivo la bambina e le mie sensazioni (non solo quelle spiacevoli, ma anche la stanchezza), senza particolari idee o consapevolezze.
Sette anni dopo è iniziata la seconda gravidanza, fisicamente ero un po’ meno scattante (il mal di schiena era già iniziato), ancora nausee, ancora acidità, ancora una mongolfiera.
Mi faccio seguire nuovamente dalla Clinica universitaria, stessa routine della prima volta, ma io ne sono meno soddisfatta: forse perché le ginecologhe si avvicendano e non si riesce ad essere visitate due volte dalla stessa, forse perché mi propongono l’amniocentesi come una pratica routinaria (mentre comporta gravi rischi di aborto) e quando rifiuto storcono il naso… forse perché sono stufa di trascinarmi continuamente in un ospedale che da casa mia è irraggiungibile con i mezzi pubblici, dove non si trova posteggio nel raggio di alcuni chilometri, dove mi costringono a un test sul diabete fastidiosissimo, per ben tre volte in gravidanza, e senza che io sia affatto diabetica. La medicalizzazione mi sembra eccessiva, il rapporto tanto impersonale quanto scadente. Diciamo che l’unica cosa utile sono le analisi del sangue, tanto per sapere se ho ferro a sufficienza.
Il parto è naturale anche questa volta, il travaglio migliore, o almeno più breve, di nuovo avrei voluto l’epidurale, di nuovo mi viene negata. Ormai tutto il reparto prevede che i bambini rimangano in camera con le mamme, ma se sei in stanza con altre tre donne, e ti accorgi che mentre tu tieni a bada i tuoi amici e parenti tutte le altre hanno organizzato un circo, e quando vorresti allattare ci sono decine di persone urlanti lì attorno, quando vorresti dormire vengono simpaticamente a farsi i fatti tuoi, ecc… allora anche così non va tanto bene, e il tuo unico pensiero è: fatemi uscire. Vuoi andare a casa, stare nel silenzio, avere un po’ di penombra, trovare i tuoi ritmi, quelli del bambino (un’altra bimba, veramente).
Ci riproviamo due anni dopo: scelgo un ginecologo privato, alla prima visita gli chiarisco il mio punto di vista “il minor numero di visite possibile, tre ecografie e poche analisi del sangue, niente tri-test, amniocentesi e menate varie, ok?”. “Ok”. E’ l’uomo che fa per me.
In effetti faccio pochi controlli, ma ho un cedimento dell’utero, quindi rischio un aborto prima o un parto troppo precoce poi. Dal quinto mese sono a letto. Riposo assoluto. Cerco di prenderla con rassegnazione, mi compro un computer portatile per poter lavorare dal letto, cerco un aiuto domestico. Quattro mesi a letto danno un certo nervosismo (sia a me, che agli altri membri della famiglia), ma per fortuna finiscono.
Per il parto questa volta scelgo il S. Anna (dove lavora il mio ginecologo), sono sfinita dalla gravidanza e quando arriviamo alla data presunta del parto chiedo l’induzione. Voglio tornare al più presto a casa dalle altre due figlie. Vorrei anche l’epidurale, ma mi dicono che non è possibile. Mi accorgo di un certo mistero, vedo che mi fanno monitoraggi continui del battito del bambino (questa volta un maschio). L’induzione viene fatta tramite flebo di ossitocina, con un monitoraggio continuo (quindi molto scomodo, ferma sulla barella, senza poter camminare o anche solo cambiare posizione). Solo quando inizia il bello del travaglio mi dicono il perché di tutte queste procedure: il bambino ha il cordone ombelicale attorno al collo, quando io ho contrazioni lui soffre, o nasce come un razzo o andiamo al cesareo. Questa volta il travaglio è davvero veloce, ma per la posizione e per l’ossitocina è anche molto più massacrante, a un certo punto inizio quasi a sperare in un bel cesareo, così si dorme e via!
Invece, grazie anche al fatto che si tratta del terzo, procede tutto velocemente, il parto è naturale ancora una volta, il bambino sta benissimo ed è una bellezza.
Non paghi, ecco che mettiamo in cantiere il figlio numero 4, stesso ginecologo, quasi stesso iter, ma ora i mesi a letto sono 6 e la schiena è talmente a pezzi che non riesco quasi a camminare. Nervosismo alle stelle. La prima che mi parla delle gioie della gravidanza la sbrano. Arriviamo al parto e questa volta pre-ten-do l’epidurale. Che si rivelerà un errore.
Sono al quarto figlio, il travaglio è brevissimo, non appena hanno finito di cacciarmi l’ago nella schiena (pratica non piacevole e non facile se si deve stare immobili mentre si è scosse dalle contrazioni) è già il momento di spingere, cinque minuti dopo Marco è fuori (alla nascita è proprio bruttino, ma si rifarà). Marco e Giorgio sono stati in camera con me tutto il tempo, è stato un po’ faticoso, specie il primo giorno, e ancora la carovana dei parenti (altrui) suscita i miei peggiori istinti omicidi.
E veniamo al 2006, ultima gravidanza. Ancora stesso ginecologo, poche visite, pochi esami, tre ecografie previste (che poi diventeranno quattro perché io continuo a minacciare un parto prematuro e la bimba sembra un po’ sottopeso), 8 mesi secchi a letto, ma con la banda di figli che ormai circola per casa è sempre più complesso. Decido che per sopravvivere mi dò al ricamo. Ordino online ago, filo e corredino da ricamare, un po’ lavoro con il portatile sulle ginocchia e un po’ ricamo. Leggo libroni enormi che mi attendevano da tempo e cerco di non badare allo stato della casa, allo stato dei miei nervi e a nient’altro.
Benedetta nasce anche lei al S. Anna, altro parto naturale, travaglio velocissimo (mio marito deve fare una corsa per arrivare un secondo prima della nascita). Non ho più chiesto l’epidurale, e anche il dolore, per quanto intenso, mi è sembrato più tollerabile.
Benedetta sta in camera con me all’ospedale, vale tutto come per Marco e Giorgio, tranne il fatto che lei è più dormigliona, così io riposo di più. I parenti altrui nel frattempo non sono migliorati.
Riepilogando, in base alla mia esperienza, mi sembra di aver capito alcune cose:
1. la medicalizzazione della gravidanza è dannosa ed eccessiva: se dovessi scegliere adesso farei ancora meno esami e meno visite. Tranne i casi di reale malattia della madre o del bambino, per il resto è demenziale pensare di fare una ecografia al mese (per vedere il bambino, dicono molte), e tutte le relative cassette, espedienti 3d, ecc…non sono altro che un metodo per garantire un elevato tenore di vita ai ginecologi che si prestano. Sono anche contraria ai vari tri-test e all’amniocentesi: si tratta di esami su base statistica, molto imprecisi ma spesso l’amniocentesi, in particolare, è causa di aborti direttamente (l’ago può danneggiare il feto) o indirettamente (il terrore del figlio imperfetto, del prodotto avariato, induce molte donne a sbarazzarsi dello stesso figlio che fino a quel momento avevano desiderato);
2. la gravidanza fisiologica non ha bisogno di grandi conoscenze o di grandi ausilii: bastano degli abiti un po’ comodi in vita, dei reggiseni via via un po’ più grandi e magari con maggior sostegno, basta mangiare sano, non fumare, non drogarsi, prendere il ferro se serve. Nessun patema per l’acido folico, non servono tutte le menate che ho visto e sentito sulla toxoplasmosi, fare ginnastica come un atleta olimpico, stare a riposo (se non espressamente richiesto dal medico) come un’invalida. Anche qui, tutto il di più è un’industria, e come tale ha di mira il proprio guadagno, non il nostro benessere.
3. è bene scegliere una nascita tanto naturale quanto possiamo/vogliamo permettercelo: ci sono donne che si preparano a un parto super-naturale, altre che scelgono di partorire in casa, in generale si diffonde sempre di più l’idea di un parto che rimane sotto il controllo della madre (e della coppia), invece di delegare tutto a una classe medica che ha procedure e interessi non sempre adeguati. Certamente ci sono anche donne che vogliono il cesareo a tutti i costi per evitare il dolore, altre che pensano di essere diventate loro dei ginecologi nei nove mesi di gravidanza, ecc… il mio consiglio è di scegliere un medico o un’ostetrica di fiducia, di decidere le grandi linee a priori, e di lasciare che il resto si adatti al corso degli eventi. In questo momento sconsiglierei l’epidurale, ad esempio, ma al tempo della mia prima gravidanza mi avrebbe certamente aiutata. L’atteggiamento dogmatico in questo ambito mi pare il peggiore;
4. scegliere con cura il luogo del parto: alcune partoriscono in casa, e forse sarebbe l’ideale. Ma non sempre è possibile, e comunque richiede alcune condizioni di base. Nel caso in cui si debba andare all’ospedale, si può però cercare un reparto dove ci sono brave ostetriche (il vero cuore dei reparti di maternità), dove i bambini sono lasciati al fianco delle mamme, ma eventualmente si possa chiedere di lasciarli in nursery per qualche ora se si è troppo stanche, dove i parenti e gli amici vengono visti come la peste, mentre i padri e i fratellini sono i benvenuti.
Dove magari non ci sono più di una/due donne per stanza. Un reparto dove si può scegliere se avere o no l’epidurale, dove si ha l’impressione che le decisioni siano condivise e non calate dall’alto (fatti salvi i casi d’urgenza, ovviamente).
5. scegliere liberamente il ruolo del padre: mio marito è sempre stato presente alla nascita dei nostri figli, ma onestamente la prima volta non sapevo se lo avrei voluto tra i piedi durante il parto, né lui sapeva se se la sarebbe sentita. Ci siamo accordati preventivamente in questo senso: se uno dei due avesse voluto allontanarsi/allontanare, l’altro l’avrebbe accettato serenamente, come una possibilità prevista e reciprocamente rispettosa. Invece mio marito non è mai stato presente a visite, ecografie, ecc… inizialmente un po’ ne soffrivo poi – osservando bene i vari mariti ginecologi improvvisati, esperti di valori del sangue, di montate lattee e contrazioni uterine – sono stata contenta di avere un semplice marito al posto di un’ostetrica camuffata. Ma anche qui, a ognuno il suo stile, se è davvero il suo, e non quello obbligato dal “così fan tutti”.
Per ora è tutto, ho lasciato volutamente da parte alcuni argomenti, tipo corredino del piccolo e allattamento, perché vorrei parlarne più diffusamente in seguito.
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Le Ceneri

Dalla costituzione apostolica Paenitemini, emessa dal Sommo Pontefice Paolo VI il 17 febbraio 1966:


“Attualmente i fedeli cattolici dei vari riti latini sono tenuti al digiuno ecclesiastico e all’astinenza dalla carne due volte l’anno, il Mercoledì delle Ceneri (per il rito ambrosiano il primo venerdì di Quaresima) e il Venerdì Santo. Sono tenuti alla sola astinenza dalle carni in tutti e singoli i venerdì dell’anno, purché non coincidano con un giorno annoverato tra le solennità dal calendario liturgico della Chiesa cattolica. L’obbligo del digiuno inizia a 18 anni compiuti e termina a 60 anni incominciati; quello dell’astinenza inizia a 14 anni compiuti. […].

La legge del digiuno obbliga a fare un solo pasto durante la giornata, ma non proibisce di fare una seconda refezione leggera. L’acqua e le medicine sia solide sia liquide si possono assumere liberamente.

La legge dell’astinenza dalle carni non proibisce di consumare pesce, uova e latticini, ma proibisce di consumare, oltre alla carne, cibi e bevande che ad un prudente giudizio sono da considerarsi come particolarmente ricercati o costosi”.


Segnalo inoltre sul blog Romualdica l’inizio della pubblicazione a puntate di una meditazione sul Salmo 90 di Dom Gérard Calvet, O.S.B.




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Teatro domestico

Venghino, Signori, venghino… tutti i membri della famiglia hanno dovuto pagare il biglietto, ma ne è valsa la pena!

Al modico prezzo di un euro a testa abbiamo potuto vedere un appassionante spettacolo di animazione, in cui comparivano san Giorgio, il drago e il re di Spagna (prima cattivo, poi buono)…
alcuni canti assortiti (natalizi, di Geronimo Stilton…)
una filastrocca sul Carnevale scritta da Caterina e recitata in gruppo
e tante risate!

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Martedì grasso

Ammetto di non avere una grande simpatia per il Carnevale. Non amo travestirmi, detesto le sfilate dei carri, l’allegria forzata, la follia prevedibile. Più ancora detesto i travestimenti per bambini che si trovano in commercio: brutti, ripetitivi, costosi.
Invece adoro vedere i miei figli giocare con la loro cesta dei travestimenti, cambiare un cappello, una spada… e diventare un personaggio completamente diverso, sperimentare nuove possibilità e personalità. Ieri Caterina era una principessa indiana, mentre Benedetta era la classica principessa delle favole (con mantellina rosa e corona di tessuto). Oggi ho comprato le ultime bugie (o frappe, frittole… o come si chiamano in altre parti di Italia) e domani è il mercoledì delle Ceneri. Sto riflettendo sulle rinunce da fare in questa quaresima… essendo una caffè-dipendente la scelta più logica sarebbe di rinunciare al caffè: ma ci ho già provato in passato, ed è stata dura… ho ancora qualche ora per rifletterci su.

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LOVE. Week-end d’arte

Venerdì abbiamo iniziato il nostro week-end artistico con una mappa del tesoro.

Abbiamo proseguito con una serie di biglietti di S. Valentino, non fotografati, in quanto tutti consegnati (con più o meno imbarazzi e batti-cuore).
Poi il nostro week-end d’arte si è intrecciato con quello suggerito dal Castello di Rivoli, il quale proponeva un pomeriggio gratuito per bambini e famiglie. Noi adulti abbiamo potuto visitare l’interessante mostra di Gianni Colombo,
mentre i bambini erano condotti a fare una breve visita alla collezione permanente del Museo,
in particolare assistendo all’opera Feu d’artifice di Giacomo Balla (che ha riscosso convinti consensi!),
e poi coinvolti in un laboratorio sull’opera LOVE di Robert Indiana

in cui venivano guidati nella realizzazione di un pop-up.
Anche questi, in parte, si sono dileguati, regalati a compagni e simpatie varie…

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Sushi boy

A Marco piace il sushi. Molto, tanto da mettere allegria.

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