Tertulliano: “Fiunt non nascuntur christiani”, (Apologeticum 18,4).
Cosa significa educare? Le risposte a questa domanda sono potenzialmente infinite. Anche raggruppate per tipologie, temo che un sondaggio sull’argomento porterebbe a risposte talora inconciliabili tra loro e che dipendono da altre domande ancora, quali “cos’è un bambino?”, “cosa è bene o desiderabile per un bambino?”, “quali obiettivi deve centrare divenendo adulto?”.
Dirò subito che non mi piacciono i piani a tavolino: prima di tutto mi chiederei chi è QUESTO bambino, quali caratteristiche ha, quali piani ha il buon Dio su di lui. Sono certamente convinta che ogni essere umano porti in sé un suo progetto, che può fiorire o abortire (e tutti i gradi intermedi tra queste due cose) per via di mille fattori, ma che l’educatore deve sostenere con ogni mezzo a sua disposizione. Tuttavia, è inevitabile che ciascun genitore, ciascun educatore, si ponga degli obiettivi in vista dei quali mette in atto alcune azioni.
Ad occhio, direi che frequentemente il primo obiettivo di un genitore per i propri figli sia la salute. Una salute che può avere sfumature fisiche e anche psicologiche.
In secondo luogo, che sia felice, certo. Ma come? Che sia allegro in ogni momento? Che si diverta moltissimo? O che sappia impegnarsi in vista di un bene maggiore, che sappia raggiungere un equilibrio capace di affrontare sfide, dolori e fatiche della vita in modo maturo, ricco e responsabile?
Ancora una volta, trovo utile (e per me necessario) riepilogare e ordinare i miei obiettivi.
1. Primo obiettivo: piacere a Dio. La mia visione della vita è certamente teleologica, cioè è la fine che dà un significato al tutto, e se la fine significa raggiungere il Paradiso piuttosto che l’Inferno, tutto il resto non può essere che funzionale a questo percorso. Pur non amando particolarmente la sofferenza e la malattia in sé, devo riconoscere che una vita di sofferenze che si conclude con la Grazia di Dio mi sembra più riuscita di una vita di piaceri e salute che si concluda nella dannazione. Ciò non toglie un sano desiderio di essere sani, felici, soddisfatti, anzi rende queste cose ancora più preziose, in quanto viste non come “diritti inalienabili”, ma come doni e opportunità.
2. Secondo: realizzare il proprio progetto interiore. In altri termini, la propria “vocazione”. Che può essere davvero qualunque cosa: il matrimonio come la vita religiosa, lo studio come l’arte, il lavoro manuale come l’assistenza al prossimo. Scoprire, valorizzare, sostenere tale vocazione è per me il ruolo principale di ogni educazione.
3. Terzo: avere gli strumenti che servono per i propri obiettivi. Essere capaci di vivere serenamente con sé stessi e con gli altri, prendersi cura della propria salute fisica e dell’equilibrio psicologico, saper affrontare le situazioni difficili, il dolore e la fatica, saper rinunciare a un bene prossimo per un bene superiore (es. rinuncio a dormire fino a tardi, per occuparmi di un progetto che richiede molte ore di lavoro).
Mi è capitato spesso di riflettere su un’ampia gamma di stili educativi, radicati a loro volta in ben precise antropologie, chiedendomi cosa potevo prendere da ognuno per raggiungere i tre obiettivi appena dichiarati e cosa invece non faceva al caso mio.
In particolare trovo che uno dei temi “critici” sia il rapporto tra libertà e autorità.
A un estremo, la convinzione che il bambino possa e debba “autoeducarsi”. Che abbia in sé tutte le risorse per la propria formazione, almeno in potenza, e che il ruolo dell’educatore debba – il più possibile – limitarsi ad affiancare, sostenere, fornire gli strumenti di questa autoformazione. Le declinazioni possono essere numerose (scuola montessoriana, libertaria, unschooling…). In ogni caso c’è la certezza che il bambino sia “buono” in radice, competente, un una specie di crisalide che contiene in sé la farfalla futura. L’adulto, in questa visione, deve tendere a scomparire, rischia di essere un ostacolo, una fonte di imposizioni e di condizionamento. Certo, c’è anche l’adulto in sintonia con il bambino, ma è un adulto che osserva, che serve, che sostiene. Molto raramente propone, mai impone.
All’estremo opposto, la convinzione che l’essere umano vada plasmato fin da piccolo, che vada modellato come argilla fino a che è tenero, anche con rigidi sostegni. Questo tipo di educazione, più “tradizionale”, nella sua versione estrema vede nel bambino, nella sua naturalità, un pericolo, una porta aperta al male, che va salvato con l’educazione dal rischio di rimanere selvatico, di portare il segno del peccato.
La prima filosofia porta spesso a una proposta morale di profilo basso o nullo, la seconda tende a una proposta morale massimalista, di tipo fondamentalista. Al di fuori dell’unica opzione educativa ammessa, tutto il resto è errore, o peccato. Ho persino letto di libri che teorizzano le percosse perché tutti i bambini sono fondamentalmente “cattivi” e devono apprendere ad essere buoni con la costrizione. Ora, posso capire che uno scappellotto scappi quando si perde la pazienza, ma considero delirante programmarlo come modo di liberare il bambino dal male che è in lui.
E io?
Io cerco di mantenere una visione cattolica su questo tema fondamentale. Sono certa che il bambino racchiude in sé luce ed ombra, peccato e grazia, potenzialità e punti deboli. Sono certa che il piano su ogni singola persona sia in ultima istanza riservato a Dio, ma sono certa che la famiglia è chiamata a collaborare in modo fattivo a questo piano. In un certo senso, la nostra stessa famiglia fa parte del piano che Dio ha su di noi.
Nella pratica, ciò significa che mi sforzo di trasmettere, senza complessi, il mio sistema di valori morali, non come imposizione, ma come opportunità di essere liberi per qualcosa di grande.
Non ritengo che necessariamente il mio sia l’unico metodo buono, o funzionante, o giusto. Posso però essere critica con ciò che considero moralmente sbagliato o fuorviante.
Al culto della libertà per la libertà, preferisco il senso della libertà come capacità di scegliere il bene e perseguirlo, anche con sforzo e sacrificio personale.
E’ un po’ come praticare uno sport: c’è un allenatore che dà indicazioni, ci sono gli sforzi per padroneggiare il gioco, il corpo, la strategia… e c’è la soddisfazione della competizione. Senza gli allenamenti, senza i muscoli che fanno male, non c’è neppure la gioia della prestazione sportiva. La libertà vera, in questo caso, è di poter scegliere un obiettivo (voglio giocare a basket, voglio riuscire a danzare Il lago dei cigni, voglio saper suonare una canzone del mio cantante preferito, voglio poter leggere un libro che mi piace… fino a voglio fare il veterinario, voglio poter lavorare per mantenere decorosamente la mia famiglia…) e di saper organizzare le proprie forze, le risorse, il tempo, le doti, in vista di questo obiettivo. Saper vedere oltre il piacere o il vantaggio immediato, sebbene il piacere e il vantaggio in sé non siano un male e talora vadano assecondati.
Non è facile saper distinguere tra le esigenze fondamentali di un bambino (sicurezza, protezione, fiducia…) e quelle secondarie (possesso, conformismo, comodità…), ma in questa distinzione va posto il limite tra libertà (di seguire le proprie esigenze primarie) e autorità (per ordinare le esigenze secondarie del bambino). Si tratta non di distinguere nelle istanze del bambino tra bene e male, ma di ordinare secondo una scala di valori graduata dal bene maggiore al bene minore. Di ogni cosa poter godere tanto quanto mi porta verso il vero piano di Dio su di me e sacrificare il resto.
Può sembrare una posizione aprioristica, o idealista, ma – al contrario – mi pare l’unica dotata di un sano realismo, che non radicalizza il bambino come un portatore di bene o di male assoluto, ma che permette di volta in volta di riconoscerne le istanze nel complesso di un percorso molto articolato. Perché per me i termini “cattolico” e “realista” sono assolutamente sinonimi.