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Introibo ad altare Dei

Abbiamo montato il nostro altare coram Deo (cioè orientato verso Dio, a est e nel Tabernacolo).

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Ora possiamo parlare della Messa, dei paramenti e degli arredi liturgici.

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E ripassare le parti della Messa e l’anno liturgico.

Bello, vero? Se vi interessa si trova qui e, per ordinarlo dall’Italia, potete provare qui.

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Ai genitori del nostro tempo

I giovani sacerdoti Georg e Joseph Ratzinger con le famiglia nel 1951.

I giovani sacerdoti Georg e Joseph Ratzinger con la famiglia nel 1951.

“Questa devozione, vissuta e praticata intensamente, caratterizzò tutta la nostra vita […] per noi bambini era un’abitudine che ci fu insegnata per così dire fin dalla culla e a cui rimanemmo sempre fedeli. Sono convinto che la mancanza di questa religiosità tradizionale sia uno dei motivi per cui oggi ci sono sempre meno vocazioni sacerdotali. Nella nostra epoca molti sono più propensi a una certa forma di ateismo che ad accogliere la fede cristiana. Di tanto in tanto amano praticare una specie di culto che però risulta incompleto, magari frequentano ancora la chiesa nelle occasioni di festa, ma questo sentimento superficiale non pervade la loro vita, non porta nulla nel loro quotidiano. Prima si mettono a tavola e cominciano a mangiare senza nemmeno pensare di recitare una preghiera e poi finiscono per non andare più a messa. Presto cominciano a vivere come dei pagani. In famiglia non sono stati abituati a curare la vita spirituale e questo atteggiamento si ripercuote sul resto della loro esistenza. Spesso parlo con altri sacerdoti e quasi tutti mi dicono che durante l’infanzia pregavano regolarmente con i genitori e partecipavano insieme alle funzioni. Questo ha influenzato tutta la loro vita e li ha avvicinati a Dio, spingendoli verso un fine in grado di produrre molti buoni frutti.”

Georg Ratzinger con Michael Hasemann, Mio fratello il Papa, Piemme, Milano 2012

 

 

“Quando iniziava il Kyrie era come se si aprisse il Cielo”

“E, per dire la verità, se cerco di immaginare un po’ come sarà in Paradiso, mi sembra sempre il tempo della mia giovinezza, della mia infanzia. Così, in questo contesto di fiducia, di gioia e di amore eravamo felici e penso che in Paradiso dovrebbe essere simile a come era nella mia gioventù. In questo senso spero di andare «a casa», andando verso l’«altra parte del mondo».”

Benedetto XVI, Intervento al VII incontro mondiale delle famiglie, Milano 2 giugno 2012, il testo completo si trova qui.

 

 

 

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San Michele Arcangelo

Oggi è la festa liturgica degli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele.

San Michele in particolare è il capo delle schiere celesti, colui che cacciò Satana dal Paradiso e a cui tradizionalmente si attribuisce il compito di pesare le anime al momento del giudizio (la sua iconografia lo rappresenta il più delle volte con spada e armatura, in altre occasioni con una bilancia in mano). A san Michele ci raccomandiamo pregando il rosario

Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; ut non pereamus in tremendo iudicio

C’è anche una versione più lunga della preghiera a san Michele

Sancte Michael Archangele,

defende nos in proelio;

contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium.

Imperet illi Deus,

supplices deprecamur: tuque,

Princeps militiae caelestis,

Satanam aliosque spiritus malignos,

qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo,

divina virtute in infernum detrude.

Amen.

(San Michele Arcangelo, difendici nella lotta; sii nostro aiuto contro la cattiveria e le insidie del demonio. Gli comandi Iddio, supplichevoli ti preghiamo: tu, che sei il Principe della milizia celeste, con la forza divina rinchiudi nell’inferno Satana e gli altri spiriti maligni che girano il mondo per portare le anime alla dannazione. Amen.)

Per alcuni si tratta di un simbolo, e può certamente affascinare anche così, per noi si tratta di una splendida realtà. Oggi parleremo di san Michele con i bambini, guarderemo immagini, racconteremo storie e pregheremo insieme, sabato prossimo ci recheremo qui:

…alla Sacra di san Michele, in val di Susa. Con un gruppo di amici faremo un pellegrinaggio e saliremo pregando dai piedi del monte, parteciperemo alla santa Messa e poi pranzeremo in compagnia nella foresteria della Sacra. La Sacra, le cui origini risalgono circa agli anni attorno al 1000, fu costruita in seguito a una visione. La leggenda vuole che la prima fondazione fosse stata avviata sul monte di fronte, ma gli angeli nottetempo sottraevano i materiali faticosamente portati in cima al monte, per trasportarli sul monte Pirchiriano (dove ora sorge la Sacra). La sua collocazione sulla via francigena la collega idealmente a San Michele sul Gargano e a Mont Saint-Michel in Francia. La porta dello zodiaco è opera dello scultore Niccolò (XII secolo), che lavorò anche alla basilica di san Zeno, a Verona.

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Benedetto e Totila

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Di tanti gesti, tanti miracoli, tanti insegnamenti contenuti nella Sancta Regula, vorrei oggi ricordare un episodio della vita di san Benedetto, che mi ha sempre commossa profondamente.

San Gregorio Magno, nei Dialoghi, racconta:

«Al tempo dei Goti, il loro re Totila, avendo sentito dire che il santo era dotato di spirito di profezia, si diresse al suo monastero. Si fermò a poca distanza e mandò ad avvisare che sarebbe tra poco arrivato. Gli fu risposto dai monaci che senz’altro poteva venire.

Insincero però com’era, volle far prova se l’uomo del Signore fosse veramente un profeta. Egli aveva con sé come scudiero un certo Riggo: gli fece infilare le sue calzature, lo fece rivestire di indumenti regali e gli comandò di andare dall’uomo di Dio, presentandosi come fosse il re in persona. Come seguito gli assegnò tre conti tra i più fedeli e devoti: Vul, Ruderico e Blidino, i quali, in presenza del servo di Dio, dovevano camminare ai suoi fianchi, simulando di seguire veramente il re Totila. A questi aggiunse anche altri segni onorifici ed altri scudieri, in modo che, sia per gli ossequi di costoro, sia per i vestiti di porpora, fosse giudicato veramente il re.

Appena Riggo entrò nel monastero, ornato di quei magnifici indumenti, e circondato dagli onori del seguito, l’uomo di Dio era seduto in un piano superiore. Vedendolo venire avanti, appena fu giunto a portata di voce, gridò forte verso di lui: “Deponi, figliolo, deponi quel che porti addosso: non è roba tua!”. Impaurito per aver presunto di ingannare un tal uomo, Riggo si precipitò immediatamente per terra e, come lui, tutti quelli che l’avevan seguito in questa gloriosa impresa.

Poco dopo si rialzarono in piedi, ma di avvicinarsi al santo nessuno più ebbe il coraggio. Ritornarono al loro re e ancora sbigottiti gli raccontarono come a prima vista, con impressionante rapidità, erano stati immediatamente scoperti.

Totila allora si avviò in persona verso l’uomo di Dio. Quando da lontano lo vide seduto, non ebbe l’ardire di avvicinarsi: si prosternò a terra. Il servo di Dio per due volte gli gridò: “Alzati!”, ma quello non osava rialzarsi davanti a lui. Benedetto allora, questo servo del Signore Gesù Cristo, spontaneamente si degnò avvicinarsi al re e lui stesso lo sollevò da terra. Dopo però lo rimproverò della sua cattiva condotta e in poche parole gli predisse quanto gli sarebbe accaduto. “Tu hai fatto molto male – gli disse – e molto- ne vai facendo ancora; sarebbe ora che una buona volta mettessi fine alle tue malvagità. Tu adesso entrerai in Roma, passerai il mare, regnerai nove anni, al decimo morirai”. Lo atterrirono profondamente queste parole, chiese al santo che pregasse per lui, poi partì. Da quel giorno diminuì di molto la sua crudeltà.

Non molto tempo dopo andò a Roma, poi ritornò verso la Sicilia; nel decimo anno del suo regno, per volontà del Dio onnipotente, perdette il regno e la vita».

La superbia del re goto non sottomessa dalla spada, ma dall’autorità morale di un monaco, il ginocchio delle popolazioni barbariche che si piega davanti alla regalità di Cristo, la mitezza che conquista la forza. Ecco un frammento di ciò che rappresenta san Benedetto, nel passato, presente e – spero – soprattutto nel futuro d’Europa.

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Crucem sanctam subiit

Un antico canto templare, nei giorni più santi dell’anno, in attesa della gioia!


Crucem sanctam subiit,

qui infernum confregit,

accintus est potentia,

surrexit die tertia.  Alleluia!

Subì la croce santa ,

Colui che spezzò il potere dell’inferno

Rivestito di potenza,

Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

 

Surrexit Christus

et illuxit populo suo:

quem redemit

sanguine suo. Alleluia!

Cristo è risorto

e ha illuminato il suo popolo

lo ha redento

per mezzo del suo sangue. Alleluia!

 

Crucem sanctam subiit,

qui infernum confregit,

accintus est potentia,

surrexit die tertia.  Alleluia! 

Subì la croce santa ,

Colui che spezzò il potere dell’inferno

Rivestito di potenza,

Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

Surrexit Christus

iam non moritur:

mors illi ultra

non dominabitur. Alleluia!

Cristo è risorto

Più non muore

La morte non ha più

Potere su di Lui. Alleluia!

 

Crucem sanctam subiit,

qui infernum confregit,

accintus est potentia,

surrexit die tertia.  Alleluia

Subì la croce santa ,

Colui che spezzò il potere dell’inferno

Rivestito di potenza,

Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

 

Surrexit Christus

lapidem quem reprobaverunt

aedificantes: hic factus est

in caput anguli. Alleluia!

Cristo è risorto

La pietra scartata

Dai costruttori: ora è divenuta

La testata d’angolo. Alleluia!

 

Crucem sanctam subiit,

qui infernum confregit,

accintus est potentia,

surrexit die tertia.  Alleluia!

Subì la croce santa ,

Colui che spezzò il potere dell’inferno

Rivestito di potenza,

Il terzo giorno è resuscitato. Alleluia!

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Deserto

Oscillo tra due estremi, tra due desideri assoluti: la ricerca del deserto, luogo spirituale dell’incontro con sé stessi e con Dio, luogo della solitudine, del silenzio, della contrazione dell’uomo al suo nucleo centrale, senza orpelli, senza parole, nessun gesto, nessun oggetto superfluo. Può presentarsi come bosco, come monastero, come cella solitaria… il deserto ha molte forme. Nel deserto l’uomo è infinitesimale, un granello di sabbia tra milioni di granelli di sabbia, la natura e Dio sono tutto.
All’opposto a volte sono gli uomini ad affascinarmi, i loro rapporti, i loro dolori. Guardare crescere i miei figli, incontrare altre persone, altre famiglie, soprattutto stabilire relazioni emotive con gli altri. Confrontarsi, confortarsi a vicenda.
Non è il mio forte, ma è quel che sono chiamata a fare. Che vorrei fare con il silenzio del deserto nelle orecchie, con il calore della vicinanza nel cuore. In tante piccolezze che mi irritano negli esseri umani, saper guardare le anime, che sono di Dio.

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Mercoledì delle Ceneri

da L’anno liturgico, di dom Prosper Guéranger

 

L’appello del profeta

Ieri il mondo s’agitava nei piaceri, e gli stessi cristiani si abbandonavano ai leciti divertimenti; ma questa mattina ha squillato la sacra tromba di cui parla il profeta Gioele (v. Epistola della Messa) per annunciare l’apertura solenne del digiuno quaresimale, il tempo dell’espiazione, l’imminente avvicinarsi dei grandi anniversari della nostra salvezza. Destiamoci, cristiani, e prepariamoci a combattere le battaglie del Signore.

L’armatura spirituale.

Ricordiamoci, però, che nella lotta dello spirito contro la carne, dobbiamo essere armati: ecco perché la santa Chiesa ci raccoglie nei suoi templi per iniziarci alla milizia spirituale. San Paolo ce ne ha già fatto conoscere i dettagli della difesa con queste parole: “Siate dunque saldi, cingendo il vostro fianco con la verità, vestiti della corazza della giustizia, avendo i piedi calzati in preparazione al Vangelo di pace. Prendete soprattutto lo scudo della fede, l’elmo della saldezza e la spada dello spirito, cioè la Parola di Dio” (Ef 6,14-17). Il principe degli Apostoli aggiunge: “Avendo Cristo patito nella carne, armatevi anche voi dello stesso pensiero” (1Pt. 4,1).

Ricordandoci oggi la Chiesa questi apostolici insegnamenti, ne aggiunge un altro non meno eloquente, obbligandoci a risalire al giorno della prevaricazione, che rese necessario quelle lotte che stiamo per intraprendere e le espiazioni attraverso le quali dobbiamo passare.

I nemici da combattere.

Noi siamo assaliti da due sorta di nemici: le passioni dentro il nostro cuore, il demonio fuori; entrambi disordini che derivano dalla superbia. L’uomo si rifiutò d’obbedire a Dio; ciò nonostante egli lo risparmiò, ma alla dura condizione di subire la morte: “Uomo, disse, tu sei polvere, ed in polvere ritornerai” (Gen 3,19). Ah! perché dimenticammo quell’avvertimento? A Dio bastò solo premunirci contro noi stessi; compresi del nostro niente, non avremmo mai dovuto infrangere la sua legge. Se ora vogliamo perseverare nel bene, al quale ci ha ricondotti la sua grazia, dobbiamo umiliarci, accettare la sentenza e considerare la vita come un viaggio più o meno breve che termina alla tomba. Sotto questa luce tutto diventa nuovo, ogni cosa si schiarisce. Nell’immensa sua bontà, Dio, che si compiacque riversare tutto il suo amore su di noi, esseri condannati alla morte, ci appare ancor più ammirabile. Nelle brevissime ore della nostra esistenza, l’ingratitudine e l’insolenza con cui ci scagliammo contro di lui ci sembrano sempre più degne del nostro disprezzo, e più legittima e salutare la riparazione che ora ci è possibile e che egli si degna d’accettare.

L’imposizione delle ceneri.

A questo pensava la santa Chiesa, quando fu indotta ad anticipare di quattro giorni il digiuno quaresimale e ad aprire questo sacro tempo cospargendo di cenere la fronte colpevole dei suoi figli, e ripetendo a ciascuno di loro le parole con cui il Signore li condannava alla morte.

Come segno d’umiliazione e penitenza, però, l’uso delle ceneri è molto anteriore a quella istituzione. Infatti lo troviamo praticato fin nell’Antico Testamento. Perfino Giobbe, che apparteneva alla gentilità, copriva di cenere la sua carne dilaniata dalla mano di Dio, per implorare così la sua misericordia (Gb 16,16). Più tardi il Salmista, nell’ardente contrizione del suo cuore, mescolava cenere nel pane che mangiava (Sal 101,10). Analoghi esempi abbondano nei Libri storici e nei Profeti dell’Antico Testamento. Si avvertiva anche allora il rapporto esistente fra la polvere d’una materia bruciata e l’uomo peccatore, il corpo del quale sarà disfatto in polvere sotto il fuoco della giustizia divina. Per salvare almeno l’anima, il peccatore ricorreva alla cenere, e nel riconoscere quella triste fraternità con essa si sentiva più al riparo dalla collera di colui che resiste ai superbi e perdona agli umili.

I pubblici penitenti.

L’uso liturgico delle Ceneri al Mercoledì di Quinquagesima non sembra che in origine sia stato imposto a tutti i fedeli, ma solo ai colpevoli di certi peccati soggetti alla pubblica penitenza della Chiesa. In questo giorno, prima della Messa, essi si presentavano in Chiesa dove stava raccolto tutto il popolo, i sacerdoti ricevevano la confessione dei loro peccati, quindi li vestivano di cilizi e spargevano sulle loro teste la cenere. Dopo questa cerimonia, il clero ed il popolo si prostravano a terra, mentre ad alta voce venivano recitati i sette salmi penitenziali. Successivamente aveva luogo la processione, durante la quale i penitenti camminavano a piedi scalzi. Di ritorno, erano solennemente cacciati fuori dalla Chiesa dal Vescovo, che diceva loro: “Vi scacciamo fuori dal recinto della Chiesa a causa dei vostri peccati e delitti, come fu scacciato fuori dal Paradiso il primo uomo Adamo a causa della sua trasgressione”. Poi il clero cantava diversi Responsori tratti dal Genesi, dov’erano ricordate le parole del Signore che condannava l’uomo ai sudori ed al lavoro sulla terra, ormai maledetta a causa sua. Quindi venivano chiuse le porte della Chiesa, affinché i penitenti non ne passassero più le soglie fino al Giovedì Santo, giorno nel quale ricevevano solennemente l’assoluzione.

Estensione del rito liturgico.

Dopo il XII secolo, la penitenza pubblica cominciò a cadere in disuso; ma l’uso d’imporre in questo giorno le ceneri a tutti i fedeli divenne sempre più generale e prese posto fra le cerimonie essenziali della Liturgia Romana. È difficile dire esattamente in quale epoca si produsse tale evoluzione. Sappiamo solo che nel Concilio di Benevento (1091) Urbano II ne fece un obbligo a tutti i fedeli. L’attuale cerimonia è descritta negli Ordines del XII secolo; le antifone, i responsori e le preghiere della benedizione delle Ceneri erano già in uso fra l’VIII e il X secolo.

Una volta i cristiani si avvicinavano a piedi nudi a ricevere l’ammonimento sul niente dell’uomo, e, ancora nel XII secolo, lo stesso Papa, per recarsi da S. Anastasia a S. Sabina, dov’è la Stazione, faceva tutto il percorso senza calzatura, come pure i Cardinali che l’accompagnavano. Poi la Chiesa mitigò questo rigore esteriore; ma continuò a dare valore ai sentimenti interni che deve produrre in noi un rito così espressivo.

Come abbiamo or ora detto, la Stazione odierna è a Roma, in S. Sabina, sul colle Aventino, aprendosi così sotto gli auspici di questa santa Martire la penitenza quaresimale.

La sacra funzione incomincia con la benedizione delle ceneri, ottenute dalle Palme benedette l’anno prima nella Domenica che precede la Pasqua. La nuova benedizione ch’esse ricevono in questa circostanza ha lo scopo di renderle più degne del mistero di contrizione e di umiltà che stanno a significare.

Per avere ulteriori dettagli sulle norme che regolano digiuno e penitenza, si veda qui.


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Candelora

Nunc dimittis servum tuum Domine,
secundum verbum tuum in pace.
Quia viderunt oculi mei salutare tuum,
quod parasti ante faciem omnium populorum,
lumen ad revelationem gentium
et gloriam plebis tuae Israel.
Gloria Patri et Filio
et Spiritui Sancto,
sicut erat in principio et nunc et semper
et in saecula saeculorum. Amen.

Oggi, 2 febbraio, è la festa liturgica della Presentazione di Gesù al Tempio, o Candelora.

Si ricordano la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione rituale della Vergine Maria. Questa festa si riferisce alle usanze ebraiche legate alla nascita di un figlio. Secondo quanto prescritto dal Levitico, infatti, le donne erano impure per sette giorni dopo il parto e non potevano partecipare a nessun rito per altri 33 giorni. Trascorso questo periodo, Maria e Giuseppe si recarono a Gerusalemme per la presentazione e l’offerta del Bambino.

A 40 giorni dal Natale, Gesù venne presentato al Tempio e offerto a Dio. L’offerta era simbolica e per riscattare un bambino era necessario offrire un animale, perché fosse sacrificato nel Tempio. Solitamente l’offerta prescritta era un agnello ma, nel caso di famiglie modeste come quella di Gesù, era sufficiente un paio di colombe.

“portarono il Bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore”(Luca 2,21-24)

Tradizionalmente oggi è la data in cui si smontano i presepi e finisce ogni celebrazione legata al Natale.

Candelora è il nome popolare della festa e deriva dal latino “candelorum”: si ricorda infatti che Gesù Cristo è la luce che viene nel mondo, “luce per illuminare le genti” si dice nel cantico di Simeone, e tradizionalmente si benedicono le candele. Dunque, nel cuore dell’inverno, la Candelora è anche festa della Luce, intesa in senso pienamente cristiano.

Chi volesse godere della bellissima liturgia tradizionale per la festa odierna, può dare un’occhiata qui.

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Il monastero del mondo

Sono mesi d’angoscia. Certamente non solo per me: la crisi economica, una mancanza di prospettive, persone che perdono il lavoro, imprese che chiudono, altre che avrebbero di che lavorare, se banche e creditori non le soffocassero. I genitori davanti alla scuola, gli amici, le persone incontrate per caso: vedo tutti spaesati. E ora?

Un governo non eletto. Non ho mai scritto una sola parola sul blog pro o contro Berlusconi, quando questo sembrava l’argomento obbligato. Ma ora devo dire semplicemente questo: un governo non eletto, guidato da un uomo non eletto. Ora, ognuno può farsi le sue idee sulla situazione politica italiana ed europea, ma che ogni mossa negli ultimi mesi sia stata fatta con la pistola puntata alle tempie, mi sembra fuor di dubbio.

Le famiglie sono allo sfascio, si rompono al primo urto, la scuola è allo sfascio, cade a pezzi non solo metaforicamente, molto spesso anche fisicamente. La popolazione invecchia senza ricambio, i figli sono un impegno (fisico, mentale, economico) che le famiglie si trovano a centellinare. La parola che viene in mente è: entropia. Tutto rallenta, si esaurisce, si raffredda e infine muore.

La cultura, la civiltà di cui facevamo parte, ha interrotto la sua catena di trasmissione: rimangono ancora tracce qua e là, ma sempre più sotto assedio, sempre più insignificanti e ignorate. Avevamo il pensiero razionale di origine greca, ma l’uso della ragione  per comprendere il mondo è sospeso: basta l’istinto, l’opinione, ognuno la vede come vuole, ognuno per sé, mondi impermeabili e indifferenti, per i quali non vale più nemmeno il vecchio adagio relativista “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri”. Macché, ogni libertà finisce dove si esaurisce la forza di imporla.

Avevamo il diritto romano, ma abbiamo alienato le facoltà decisionali dai popoli ai burocrati, dalla legislazione che difende i valori condivisi e il bene comune siamo passati alla legislazione dei desideri individuali e dell’irrilevanza collettiva. Ogni desiderio è legge, e se non lo è ancora oggi, lo diventerà. Mentre noi coltiviamo quest’ultima crapula da fine impero (contraccezione, aborto, droga, omosessualità, eutanasia: guardateli bene in fila i nomi delle nostre nuove libertà) non ci accorgiamo che queste stesse “libertà” sono un veleno che ci sta uccidendo. La libertà virile del cittadino romano, di fare il proprio dovere, servire lo stato e la famiglia, la libertà di chi vive per cose grandi, invece, è sempre più ostacolata. Non impossibile, ci rimane sempre la via del martirio, ma certo non facilitata.

Avevamo la tradizione giudaico-cristiana: un uomo non è un atomo di materia governato dal caso, ma una persona, un’entità materiale/spirituale, dotata per sua natura di strutture e regole interne. Avevamo il diritto naturale, chessò, almeno il rispetto per la vita, la proprietà, la famiglia. Per chi ci credeva, gli obblighi verso Dio. Ora siamo grumi di materia aggregati dal caso e riaggregabili a piacimento (voglio essere uomo, voglio essere donna, non voglio essere madre, voglio essere padre senza che ci sia una madre, voglio…).

Avevamo infine alcuni secoli di cultura, una tradizione letteraria, artistica, scientifica… il meglio che si poteva produrre. A un certo punto questa tradizione non ci è sembrata più un tesoro prezioso da trasmettere prima di tutto alle generazioni future, poi a chiunque volesse avvicinarla, ci è sembrata ingombrante, un gesto di presunzione, una situazione di vantaggio che andava annullata: in pochi decenni abbiamo fatto tabula rasa. Ora, che non rimane quasi più nulla, siamo diventati i paladini del multiculturalismo: difendiamo tutte le culture che troviamo, basta che non sia la nostra. Vegliamo sui diritti di tutti: musulmani, animisti, indù, buddhisti… Basta cancellare ancora un presepe, togliere ancora un crocifisso, ci stiamo facendo più in là, pazienza!, ancora un pochino e non ci saremo più. Stiamo lavorando perché le prossime generazioni non sappiano leggere le nostre opere letterarie e filosofiche, perché non conoscano nulla della nostra religione, perché scambino il pensiero tecnico, di cui sono stati sempre capaci  -chi più e chi meno – tutti i popoli della terra, con quello scientifico il quale, se permettete, era possibile solo in un certo humus culturale. Ancora un attimo, e non ci saremo più.

In questa angoscia, sempre più tangibile, rimane una speranza, però: ripensare alle origini della civiltà che vediamo languire, ricordarne gli inizi, le persecuzioni, i martiri, i monaci.

Dom Gérard Calvet scriveva: “I monaci hanno fatto l’Europa, ma non l’hanno fatta di proposito…”.

“Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”. (Benedetto XVI, Discorso pronunciato all’incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, tenutosi a Parigi venerdì 12 settembre 2008).

Ecco, ogni volta che mi sporgo di più verso il mondo, ogni istante in cui mi lascio trascinare dalle mille cose da fare, persone da contattare, messaggi da mandare, ora anche tramite le nuove tecnologie, i social network, ecc… mi viene in mente questo quaerere Deum. E torna la voglia di ritirarmi nel mio monastero privato, fatto di cose da fare, preghiere da dire, parole importanti da leggere e meditare, persone a cui parlare con calma. In questo momento, in cui faccio così fatica a credere negli uomini, so che posso fidarmi di Dio. Dal monastero del mondo, voglio curarmi di un’opera sola, giocare tutto su un solo piatto: quaerere Deum. Il resto, si sa, è dato in sovrabbondanza.

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Farmi radici – ovvero, la mia storia

Sono senza radici, o forse le radici della mia generazione sono queste. Vengo dopo la guerra, dopo la lotta, successiva al boom economico, il ’68 è il mio anno di nascita, non evoca nessuna militanza, né di qua, né di là. Un padre e una madre scappati alle rispettive terre, alle rispettive povertà. Sradicati in una città operaia. Trasportati in una corrente demografica, prima generazione dall’immaginario pesantemente televisivo. Mettere su casa, il posto fisso, le vacanze al mare.

Sradicata figlia di sradicati. Nulla mi trattiene, tutto mi spinge, a sedici anni. L’inquietudine mi spinge, nulla mi trattiene. Vado decisa, incarno ogni idea che afferro, butto me stessa in un campo di forze, sono rigida, intransigente, estremista per definizione. Penso di inventare giorno per giorno un sentiero che invece è affollato.

Cosa cerca il cuore? Dove vuole ancorarsi? Quante volte sogna di cadere in ginocchio?

Non rinnego niente, se il percorso che ho fatto doveva portarmi qui. Anzi, se qualcosa ho rinnegato, è il momento di riaccoglierlo, di pacificarmi.

Soprattutto ringrazio di avere avuto un cuore grande (la testa invece così e così), tanto da sentire sete di cose grandi, da volere tutto, da cercare senza mezze misure. Ho avuto sete fino a quando non ho trovato un fiume vivo, un albero con radici eterne, una storia che andava ben oltre la mia, ricca di bellezza e verità.

Oggi guardo i miei figli e vorrei farmi  radici per loro, vorrei che la nostra famiglia fosse il loro luogo di innesto su questo albero vivo. Vorrei trasmettere loro ciò che viene da lontano, non le foglie caduche che si rinnovano ad ogni stagione, ma la linfa, ciò che non muta. Vorrei essere in grado di insegnare loro che ci sono parole che l’uso consuma, che diventano trasparenti e prive di significato, altre invece si trasformano in perfette pietre levigate, acquistano senso e cuore ad ogni passaggio. Vorrei aiutarli a scoprire queste parole, un linguaggio liturgico, un senso sempre più vasto rispetto ai termini che vogliono esprimerlo.

Vorrei dir loro che il tempo è prezioso e dovremo renderne conto, portarli via dalla città, concedere spazio e tempo alle anime.

Farmi radici per loro.

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