Sono mesi d’angoscia. Certamente non solo per me: la crisi economica, una mancanza di prospettive, persone che perdono il lavoro, imprese che chiudono, altre che avrebbero di che lavorare, se banche e creditori non le soffocassero. I genitori davanti alla scuola, gli amici, le persone incontrate per caso: vedo tutti spaesati. E ora?
Un governo non eletto. Non ho mai scritto una sola parola sul blog pro o contro Berlusconi, quando questo sembrava l’argomento obbligato. Ma ora devo dire semplicemente questo: un governo non eletto, guidato da un uomo non eletto. Ora, ognuno può farsi le sue idee sulla situazione politica italiana ed europea, ma che ogni mossa negli ultimi mesi sia stata fatta con la pistola puntata alle tempie, mi sembra fuor di dubbio.
Le famiglie sono allo sfascio, si rompono al primo urto, la scuola è allo sfascio, cade a pezzi non solo metaforicamente, molto spesso anche fisicamente. La popolazione invecchia senza ricambio, i figli sono un impegno (fisico, mentale, economico) che le famiglie si trovano a centellinare. La parola che viene in mente è: entropia. Tutto rallenta, si esaurisce, si raffredda e infine muore.
La cultura, la civiltà di cui facevamo parte, ha interrotto la sua catena di trasmissione: rimangono ancora tracce qua e là, ma sempre più sotto assedio, sempre più insignificanti e ignorate. Avevamo il pensiero razionale di origine greca, ma l’uso della ragione per comprendere il mondo è sospeso: basta l’istinto, l’opinione, ognuno la vede come vuole, ognuno per sé, mondi impermeabili e indifferenti, per i quali non vale più nemmeno il vecchio adagio relativista “la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri”. Macché, ogni libertà finisce dove si esaurisce la forza di imporla.
Avevamo il diritto romano, ma abbiamo alienato le facoltà decisionali dai popoli ai burocrati, dalla legislazione che difende i valori condivisi e il bene comune siamo passati alla legislazione dei desideri individuali e dell’irrilevanza collettiva. Ogni desiderio è legge, e se non lo è ancora oggi, lo diventerà. Mentre noi coltiviamo quest’ultima crapula da fine impero (contraccezione, aborto, droga, omosessualità, eutanasia: guardateli bene in fila i nomi delle nostre nuove libertà) non ci accorgiamo che queste stesse “libertà” sono un veleno che ci sta uccidendo. La libertà virile del cittadino romano, di fare il proprio dovere, servire lo stato e la famiglia, la libertà di chi vive per cose grandi, invece, è sempre più ostacolata. Non impossibile, ci rimane sempre la via del martirio, ma certo non facilitata.
Avevamo la tradizione giudaico-cristiana: un uomo non è un atomo di materia governato dal caso, ma una persona, un’entità materiale/spirituale, dotata per sua natura di strutture e regole interne. Avevamo il diritto naturale, chessò, almeno il rispetto per la vita, la proprietà, la famiglia. Per chi ci credeva, gli obblighi verso Dio. Ora siamo grumi di materia aggregati dal caso e riaggregabili a piacimento (voglio essere uomo, voglio essere donna, non voglio essere madre, voglio essere padre senza che ci sia una madre, voglio…).
Avevamo infine alcuni secoli di cultura, una tradizione letteraria, artistica, scientifica… il meglio che si poteva produrre. A un certo punto questa tradizione non ci è sembrata più un tesoro prezioso da trasmettere prima di tutto alle generazioni future, poi a chiunque volesse avvicinarla, ci è sembrata ingombrante, un gesto di presunzione, una situazione di vantaggio che andava annullata: in pochi decenni abbiamo fatto tabula rasa. Ora, che non rimane quasi più nulla, siamo diventati i paladini del multiculturalismo: difendiamo tutte le culture che troviamo, basta che non sia la nostra. Vegliamo sui diritti di tutti: musulmani, animisti, indù, buddhisti… Basta cancellare ancora un presepe, togliere ancora un crocifisso, ci stiamo facendo più in là, pazienza!, ancora un pochino e non ci saremo più. Stiamo lavorando perché le prossime generazioni non sappiano leggere le nostre opere letterarie e filosofiche, perché non conoscano nulla della nostra religione, perché scambino il pensiero tecnico, di cui sono stati sempre capaci -chi più e chi meno – tutti i popoli della terra, con quello scientifico il quale, se permettete, era possibile solo in un certo humus culturale. Ancora un attimo, e non ci saremo più.
In questa angoscia, sempre più tangibile, rimane una speranza, però: ripensare alle origini della civiltà che vediamo languire, ricordarne gli inizi, le persecuzioni, i martiri, i monaci.
Dom Gérard Calvet scriveva: “I monaci hanno fatto l’Europa, ma non l’hanno fatta di proposito…”.
“Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa”. (Benedetto XVI, Discorso pronunciato all’incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, tenutosi a Parigi venerdì 12 settembre 2008).
Ecco, ogni volta che mi sporgo di più verso il mondo, ogni istante in cui mi lascio trascinare dalle mille cose da fare, persone da contattare, messaggi da mandare, ora anche tramite le nuove tecnologie, i social network, ecc… mi viene in mente questo quaerere Deum. E torna la voglia di ritirarmi nel mio monastero privato, fatto di cose da fare, preghiere da dire, parole importanti da leggere e meditare, persone a cui parlare con calma. In questo momento, in cui faccio così fatica a credere negli uomini, so che posso fidarmi di Dio. Dal monastero del mondo, voglio curarmi di un’opera sola, giocare tutto su un solo piatto: quaerere Deum. Il resto, si sa, è dato in sovrabbondanza.