Ne parlavo in un
post precedente, riprendo qui l’argomento, stimolata dall’attualità per via della recente conferenza di Copenhagen, e anche dal tema del mese del
blogstorming di Genitori Crescono. Ho letto con interesse e segnalo alcuni altri
interventi nella blogosfera. Inizio col ribadire che è un argomento su cui vado con i piedi di piombo. Onestamente, mi piacciono poco le mode: e l’ecologia è sicuramente ANCHE una moda. Ma non solo.
L’ecologia “cristiana” (se posso usare questo termine, rimando qui anche a una interessante
sintesi del Magistero di Benedetto XVI sul tema, a opera di Massimo Introvigne) dovrebbe innanzi tutto essere inquadrata nel concetto di Creazione affidata da Dio alla custodia (custodia, non all’abuso) dell’uomo. La Terra, in questa prospettiva, è vista come un patrimonio comune dell’uomo, a sua disposizione per trarne sostentamento e conforto, ma allo stesso tempo “affidatagli” dal vero padrone, cioè Dio, che gli chiederà conto dell’operato.
In questo senso, si può quindi pensare l’ecologia come la tutela della nostra casa comune, fatta dall’uomo in favore dell’uomo, ma – principalmente – come parte di un atteggiamento più ampio che possiamo chiamare “ecologia umana”, ovvero il riconoscimento e la collaborazione da parte dell’uomo al piano di Dio. Non ha senso per me condurre, ad esempio, agguerrite battaglie contro gli OGM, se poi si accetta la manipolazione biologica sul materiale umano: non me la sento davvero di dire che il mais merita un trattamento più riguardoso di un essere umano. La difesa della vita e della famiglia – e di una famiglia secondo il diritto naturale, non secondo le mutevoli definizioni dei legislatori – è il primo passo per poter giungere a un vero sguardo ecologico (non “ecologista”) sul mondo. La tutela e la cura dei bambini, dei malati, degli anziani sono atteggiamenti in un certo senso più ecologici di una raccolta differenziata o di un elettrodomestico a basso consumo energetico: sono la tutela della vita in tutto il suo sviluppo, dal suo concepimento alla sua fine.
Una vita umana non autosufficiente, certo, ma in profonda interdipendenza con l’ambiente che la circonda, con le risorse naturali, con le condizioni climatiche, idriche e geologiche, con fauna e vegetazione. Proprio nel senso di questa interdipendenza trovano il giusto inquadramento tutti quegli atteggiamenti privati o collettivi tesi a tutelare e a difendere l’ambiente. Raccolta differenziata, controllo del consumo energetico, ecc… Ma non bisogna nascondere che quando si parla di ecologia si parla anche, implicitamente, di povertà e di modelli di sviluppo. La nostra economia occidentale ha recentemente subito una battuta d’arresto con la crisi economica del 2008/2009, ma da decenni si basa fondamentalmente su un modello di crescita continua e virtualmente infinita, sul presupposto che le materie prime saranno sempre disponibili e a prezzi convenienti… tutti presupposti che proprio la crisi ha parzialmente smascherato. Forse dovremmo dirci con sincerità che la crescita infinita non è possibile e neppure desiderabile, che la maggior parte dei nostri consumi e dei nostri falsi bisogni sono del tutto superflui, di più: sono trappole in cui siamo caduti, che ci portano a comportamenti obbligati e da cui dobbiamo trovare il modo di uscire, per la nostra felicità prima di tutto. In un certo senso bisogna mettersi nei panni dell’enorme parte di popolazione mondiale che non ha raggiunto i nostri livelli di sviluppo: possiamo dir loro che il paradiso di merci e consumi che tanto desiderano è loro precluso, perché estendere a loro il nostro tenore di vita creerebbe troppo inquinamento e carenza di materie prime? Non dovremmo indicare, a noi stessi e a loro, un modello diverso, non basato sui consumi ma sui rapporti umani? E che dire di chi è talmente povero da non avere alcun accesso alle materie prime? Condividere i nostri beni con altri esseri umani prima e più che con i panda o altre specie in estinzione non sarebbe una forma di ecologia?
Inoltre c’è qualcosa di vagamente stonato nella promozione ad esempio di rottamazioni continue di auto ed elettrodomestici in favore di prodotti nuovi a minor consumo, specie se quelli vecchi finiscono a inquinare qualche paese del terzo mondo o diventano un problema sul versante dello smaltimento dei rifiuti. La soluzione ai nostri problemi non può essere sempre una forma di consumo: talora deve essere una forma di “astinenza” dal consumo. Di limitazione, di rinuncia in favore di un bene più alto. E’ molto difficile lavorare sui modelli di comportamento, diffondendo l’idea che davvero in molti casi avere meno, avere stili di vita più semplici e frugali, è una cosa che libera energie, creatività, modi diversi di pensare.
Al contrario, l’ansia collettiva di possedere tutti le stesse cose, il considerare alcuni consumi come oggetti del desiderio e come status symbol ci ha resi schiavi di un pensiero unico e di uno stress infinito. Ho spesso osservato famiglie con redditi più modesti della mia che fanno i salti mortali per poter dare ai propri figli il nuovo modello di videogioco, lo schermo televisivo più moderno, il gioco più chiassoso e vistoso. Non voglio avere un atteggiamento snob, anche perché spesso vengo guardata come una matta quando dico che io le stesse cose ai miei figli se non le proibisco del tutto almeno le limito fortemente, ma questa osservazione mi riempie di tristezza. Vorrei che ci fossero più genitori convinti che un oggetto in meno e un desiderio insoddisfatto in più possono essere davvero formativi per i propri figli.
Infine vorrei dire una parola sulla vera crescita, che è la crescita della popolazione: per decenni i demografi ci hanno detto che andavamo verso un destino di fame e sovrappopolazione. Ora sappiamo che si sbagliavano: stiamo andando verso un destino di vecchiaia ed entropia (almeno in Europa). Che non sia venuto il momento di pensare davvero al futuro, non solo per lasciare un mondo più pulito ai nostri figli, ma per lasciare dei figli a questo mondo? Gli europei hanno troppa paura del futuro per fare figli, come possono desiderare di lasciare un mondo più pulito e delle risorse conservate, se non riescono a proiettarsi oltre il proprio ciclo di vita? Forse tra qualche tempo annovereremo il fare figli (e magari alla vecchia maniera, tra un uomo e una donna) tra gli atteggiamento veramente ecologici, chissà!
Vedere il mondo indossando i panni del “consumatore” lo rende purtroppo più brutto e uniforme. Per questo motivo, quando penso a cosa significa davvero per me ecologia, la prima immagine che mi viene in mente è uno spazio vuoto: liberare gli spazi, svuotare le case, comprare poco. Non dico di esserne capace, ma è il mio approccio al tema, il mio ideale a cui tendere. Poi vengono i gesti quotidiani appropriati, a volte coerenti, a volte – ahimé – no…